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Perché un servizio psicologico per una patologia che al contrario è molto fisica e fa sentire i suoi effetti soprattutto sul corpo?
di Marco Bani e Francesca Gallina (Unità operativa di Psicologia clinica presso l’Ospedale San Gerardo di Monza)

L’esperienza della malattia espone i malati oncologici e le famiglie a crisi che rendono spesso necessario l’intervento dello psicologo. Anche in questo senso la Don Giulio Farina si è impegnata seriamente, finanziando un’équipe multidisciplinare che offre gratuitamente sostegno psicologico ai pazienti oncologici e ai loro familiari.
La patologia tumorale fin dalla diagnosi cambia in modo profondo la vita alle persone: il percorso di cura (chirurgia, chemioterapia, radioterapia, terapia orale etc.) costringe a cambiare i ritmi di vita, le visite sono frequenti e le attività lavorative vanno inevitabilmente in secondo piano, si fanno strada nella mente tante domande e tanta incertezza (e adesso cosa succederà?, potrò continuare a vivere normalmente?, etc.). Anche l’organizzazione familiare si modifica, così come la relazione con il partner e con i figli. Il percorso di cura poi non si esaurisce in un intervento chirurgico o in un ciclo di terapia ma si protrae per diversi mesi, con intensità differenti, e in ogni caso diventa parte della quotidianità. I medici e gli infermieri diventano figure familiari, l’ospedale un ambiente noto. Sembra che tutta la vita giri intorno all’ambiente ospedaliero. Si ha la percezione che non ci sia più spazio soprattutto per le attività piacevoli tra cui il rilassamento e la cura del proprio aspetto fisico, estetico e della propria interiorità. La caratteristica principale di questo percorso è il vissuto di grande incertezza, che si dipana solo nel corso del tempo, valutando di volta in volta i risultati raggiunti e stabilendo gli obiettivi successivi. Le risorse possono esaurirsi, diminuire in modo temporaneo o per diverse settimane, i dubbi possono farsi strada e diventare grandi e inquietanti e, talvolta, le uniche certezze per cui si riesce a far posto sono quelle della stanchezza, degli effetti collaterali, delle cose che non si è più in grado di fare. Il percorso oncologico può essere definito come un’esperienza carica di emozioni intense come la paura, la tristezza o la rabbia per quello che sta succedendo. Capita sovente di pensare “proprio adesso che potevo cominciare a godermi i frutti del mio lavoro…”, “non è giusto quello che sta succedendo” e non è facile condividere queste sensazioni con altre persone, gli stessi familiari o gli amici. Il timore è quello di preoccuparli, di ferirli oppure di non sentirsi capiti e il desiderio quello di non farsi compatire. Ecco che, accanto a quello oncologico, l’intervento psicologico diventa uno spazio in cui queste emozioni e questi pensieri possono essere condivisi e affrontati, per capire come è possibile renderli meno spaventosi, per riprendersi pezzo per pezzo la quotidianità che, pur all’interno di un percorso di malattia e di cura, deve avere spazio. Rappresenta anche un momento in cui potersi sentire meno soli, ricevere tutta l’accoglienza e la comprensione di cui si ha bisogno e non sentire il peso di dover mascherare i propri vissuti spiacevoli per non sovraccaricare o spaventare l’altro.

La malattia e le terapie fanno parte della vita, ma non sono la vita.

Diventa quindi importante lasciare lo spazio necessario al percorso di cura riprendendo le attività quotidiane e il confronto con lo psicologo può contribuire a riordinare le tante domande e a riattivare le risorse, per trovare le risposte più utili in quel momento, riconoscendo lo spazio e il tempo anche per se stessi e per i propri familiari. Aspetti essenziali di questo percorso sono anche, per le donne, il recupero della percezione della propria femminilità, che sovente viene alterata dalle cure, e della propria sessualità, ambito che interessa sia uomini che donne e che, pur rappresentando a volte un tabù, costituisce una dimensione importante della vita di ognuno in cui poter ancora sperimentare un vissuto di intimità e condivisione con il/la partner. Oltre a percorrere la strada delle terapie ogni paziente è chiamato a capire la differenza tra essere malati e avere una malattia. Essere malati comporta il rischio di lasciare alla malattia anche gli spazi che non le competono, mentre è necessario diventare consapevoli che “io non sono la mia malattia ma, anche se ho una malattia, continuo ad essere un marito o una moglie, un amico, un figlio, un genitore, un lavoratore, un nonno, etc.” e per continuare a vivere questi ruoli in modo completo è necessario ricostruire dei confini, anche se questo può comportare uno sforzo personale. In questo percorso il confronto con lo psicologo può essere una risorsa preziosa. Oltre al paziente anche i familiari sono chiamati a capire questa differenza cercando di ricostruire la normalità dei rapporti, evitando atteggiamenti troppo protettivi se non ci sono motivi reali, ma al tempo stesso senza minimizzare la fatica del paziente; anche in questo caso il confronto con un professionista è utile per costruire modi di comunicare e di relazionarsi più efficaci. L’intervento psicologico può essere perciò utile sia ai pazienti che ai familiari. In particolare in questo percorso ampio spazio viene riservato all’aiuto nella gestione della relazione con i figli. I bambini e gli adolescenti infatti sentono che in famiglia “c’è qualcosa che non va” anche se si cerca di mascherare il più possibile il proprio dolore. Vedono che la mamma o il papà ha perso i capelli e si pongono delle domande che sovente non riescono a condividere con i genitori.

Più si nasconde ai bambini e agli adolescenti la verità, più le loro preoccupazioni e paure aumentano.

È perciò necessario non nascondere ai figli la malattia e le cure ma è indispensabile informarli nel modo migliore, utilizzando modalità adeguate alla loro età. Proprio per raggiungere questo obiettivo, fondamentale per il benessere dei figli, è stato attivato, in collaborazione con il dottor Jankovic, pediatra onco-ematologo, un progetto a loro dedicato. In questo progetto viene dato spazio ai loro vissuti e ai loro interrogativi, viene fatta chiarezza sulla malattia e sulle cure di mamma o papà e allo stesso tempo vengono aiutati i genitori a gestire al meglio la relazione con i propri figli in un momento così complicato.

“Ma io non ho bisogno dello psicologo!”

Mentre per alcune persone l’intervento psicologico rappresenta un utile supporto o un punto di discussione e confronto sul percorso di cura e sui cambiamenti che inevitabilmente porta nei vari aspetti della vita (personale, lavorativa, sociale etc.), per altre la proposta di un colloquio a volte è vissuta con sospetto o diffidenza. Il primo colloquio diventa, allora, l’occasione per conoscersi, non alla ricerca di “qualcosa che non va” ma al contrario per vedere insieme come la diagnosi e il percorso di cura hanno cambiato le cose e come si possono affrontare i cambiamenti. È proprio per questo motivo che alle pazienti con neoplasia mammaria viene spesso dedicato uno spazio di accoglienza con lo psicologo successivo alla prima visita oncologica, in cui poter fare ancora più chiarezza rispetto alle informazioni ricevute, al loro impatto sulla vita quotidiana e affrontare eventuali crisi di sconforto e preoccupazione. Ad accorgersi che le proprie risorse non sono più sufficienti a far fronte alla situazione può essere lo stesso paziente, per esempio osservando di non riuscire più a fare alcune cose o di aver bisogno degli altri anche per attività che prima svolgeva in autonomia. Altre volte però l’occhio esterno dei familiari o dei medici può accorgersi di cambiamenti talvolta meno evidenti a chi li vive in prima persona (uscire di meno, parlare poco, restare molto tempo a letto etc.). In questo caso, la proposta di confrontarsi con qualcuno per rimettere in gioco le risorse “addormentate” arriva dall’esterno. L’aiuto di uno psicologo può perciò essere chiesto spontaneamente o suggerito da familiari, medici e infermieri. È poi importante sapere che ciascuno reagisce in modo molto soggettivo alle diverse situazioni della vita e soprattutto quando diventa difficile farcela da soli possono emergere delle difficoltà, in particolare da parte di chi è abituato a fare e a gestire sempre tutto da solo. In questi casi chiedere aiuto non è segno di debolezza o di fragilità ma può essere vissuto come un’opportunità da cogliere, senza aspettare di avere “l’acqua alla gola”.